Chiunque sia nato in Italia lo sa: il rito domenicale per eccellenza, più della messa e dei pasticcini alla fine del pranzo in famiglia, è la partita al bar.
Quando ero piccola e abitavo in provincia, mio nonno – membro onorario del Circolino, dove giocava a carte, a bocce, mi offriva il Crodino e teorizzava di argomenti vari con la platea presente (tutti pensionati come lui, dunque facili ai pipponi urbi et orbi) – stazionava al bar.
E il rumore della partita di sottofondo, insieme a quell’odore che solo i bar hanno, è una colonna sonora familiare – penso – a milioni di italiani.
Poi sono cresciuta e sbattendomene allegramente del calcio, nei bar ormai vado più che altro a bere cappuccino.
Ma ho l’onore, ogni tanto, di ospitare i post del maggiore esperto mondiale di bar, Stefano Gianuario, autore di:
Vanilla Scent (il suo primo romanzo, non ditemi che ancora non l’avete letto)
E allora vi lascio con lui, ovviamente al bancone del bar.
La partita al bar
Di Stefano Gianuario
Nel pieno dell’era digitale alcune cose della vita reale hanno perso irrimediabilmente sapore. Inutile negare o ingannare, se stessi o gli altri: c’è poco da fare, alcune cose non le vogliamo o sappiamo più fare.
L’elenco potrebbe essere sterminato, ma giusto perché qualche esempio va pur lanciato: non si mandano più cartoline dai luoghi di villeggiatura – di varia natura, dal paesaggio a fanciulle invitanti tanto disinibite quanto ignude – ma non si tiene neanche più il Tuttocittà in auto per cercare la via smarrita, non si usano i dizionari tascabili quando all’estero vogliamo provare a salutare o ringraziare in un idioma lontano da quello italico e chi più ne ha meno ne metta per cortesia, perché è già abbastanza nostalgico così.
Ma c’è una cosa alla quale, anche se dessero supporti indossabili di realtà aumentata gratuitamente, non si rinuncerebbe facilmente: la partita – di calcio, ça va sans dire – al bar.
Certo, si potrà dire, è innegabile l’emozione dello stadio, chiaramente le pay tv offrono un mix tra coperture e inquadrature che sembra quasi di giocare a Fifa, ma vedere una partita al bar è qualcosa che va oltre la passione per il calcio e, in certi casi trascende proprio, il calcio stesso. Il perché è presto detto: solo guardando una partita al bar si potranno trovare i soggetti che guardano la partita al bar.
Ecco perché, al netto di ogni considerazione di cui sopra, occorre un piccolo decalogo per individuare e quindi riconoscere – e riconoscersi, sia chiaro – i soggetti più comuni che potrete trovare se deciderete di provare questa esperienza che per molti parrà a dir poco surreale.
Il tifoso
Sa poco o nulla di calcio ma questo non gli impedisce di berciare su ogni azione, anche a gioco fermo, anche e soprattutto durante l’intervallo. Inveisce contro ogni decisione arbitrale, a prescindere che sia a favore o contro la sua squadra, nega evidenze clamorose e apostrofa l’arbitro con epiteti creativi che hanno quasi sempre a che fare con la sfera sessuale e con le mogli e le madri dei medesimi.
Per supportare la sua foga, che comporta una dispendiosa dose di energie, si abbevera di surrogati alcolici ad minchiam, come fosse un cammello al rientro da quaranta giorni nel deserto, fuma come una entreneuse turca sul viale del tramonto e suda e sputa in maniera copiosa per regolare l’equilibrio idrico. Difficilmente finirà di vedere la partita, lo troverete più facilmente stramazzato al suolo attorno al ’60.
Il tennico
Lui non tifa, perché il tifo annebbia il giudizio e lui deve dare giudizi. Su tutto, dalle azioni di gioco, siano queste una verticalizzazione del regista con brillante rete di prima del centravanti o un retropassaggio di piattone al portiere di un qualsivoglia difensore centrale. Ma commenta anche le divise arbitrali, gli scarpini delle riserve, il taglio di capelli dell’esterno destro, la campagna acquisti della stagione ’76/’77 di entrambe le squadre in campo – più un paio a scelta random, giusto per ostentare una conoscenza abissale – mentre voi penserete solo che sarebbe bello se nell’abisso ci finisse lui. La logorrea è chiaramente la sua peculiarità principe e non può farne almeno. Ragion per cui non berrà mai dal bicchiere che ha in mano dall’inizio del riscaldamento e la fiatella delle sue fauci secche sarà micidiale.
Il finto disinteressato
Dice di trovarsi lì per caso – ma al bar non si va mai per caso –, ostenta a ripetizione commenti generici per affermare la sua posizione di finta nonchalance, chiedendo per l’ennesima volta come funziona il fuorigioco ad esempio, infastidendo tutti i presenti, compresi gli ottuagenari del bar, che risvegliatisi da micropenniche durante i tempi morti lo insulteranno secondo il vernacolo regionale di provenienza.
È chiaramente un millantatore, in buona parte dei casi sarà infatti un gufo – non solo di una o entrambe delle due squadre in campo – e, in una remota ipotesi potrebbe essere anche una spia di un altro bar. Da ultimo, tenendo fede alla sua pantomima circa il passaggio casuale dal bar, cercherà di scroccar da bere fingendo di essere uscito senza portafoglio. Da tenere lontano.
Il neofita
Poco importa se era una promessa del calcio già da quando giocava nei pulcini della squadra locale e se riesce a fare una serie infinita di palleggi anche con il tappo di sughero schizzato di mano al barista dall’altra parte del bancone. Il neofita finge di essere “alle prime armi” (non ce ne voglia Nanni Moretti) perché è tra le nuove leve del bar. Potrebbe avere, oltre alle eccellenti doti tecniche, anche già sostenuto l’esame a Coverciano ed essere tranquillamente in grado di allenare qualsiasi squadra, dalla Polisportiva di Borgo Tre Case al Real Madrid.
Ma si sa, la legge del Bar è sovrana e questo spumeggiante mix tra Roberto Baggio e Sir Fergussonpotrà dire la sua solo dopo un lungo periodo di apprendistato. Chi vivrà, vedrà.
Il barista
Inutile ribadire come la figura cardine di ogni bar sia il barista. Nel caso de La partita al Bar, il barista può trasformarsi in uno o tutti o anche combinazioni squisite dei profili di cui sopra. Se si tratta di un barista-tifoso, il minimo prima di mettere piede nel locale è capire quale sia la sua squadra del cuore e pregare divinità casuali – meglio se di panteon pagani – affinché vinca. In alternativa il sapore della sconfitta lo testerete nei vostri bicchieri e nei conti di fine serata.
Difficilmente il barista avrà interesse a vendersi come neofita, non si esclude invece un barista-finto disinteressato che in realtà organizzerà appositamente serate per i match clou delle squadre meglio rappresentate dalla sua clientela, solo per gufare pesantemente e godere come un vecchio produttore cinematografico laido della sconfitta. La combinazione barista-tennico è però in assoluto la peggiore da trovare e no, ascoltarlo per tre ore non comporterà che vi offra da bere. Provare per credere.
La Sindrome di Buffon
Da ultimo, come sostiene a più riprese la mia gentil consorte, tutti i figuri elencati hanno in comune la Sindrome di Buffon. Si è un po’ tutti il portierone nazionale, capace da una parte di alzare la Coppa del Mondo e vincere trofei per vent’anni e, dall’altra di dare del bidone di immondizia a un arbitro in diretta se la sua squadra perde. Un po’ come quelli che in auto si dimenticano di essere anche pedoni, che quando girano a piedi insultano tutte le auto che non inchiodano per farli passare, che il mondo è pieno di disgrazie ma non mi riguardano finché accadano nelle vite altrui e via così, perché in fondo è bene sempre ricordarsi di essere tutti umani e, come tali, del tutto fallibili.
Pensavi a Proust e invece trovi solo i dolcetti a forma di conchiglia. A questo punto puoi scegliere: ti metti a leggere la Recherche oppure un blog che adora il formaggio? Chi sono io? Oriana, giornalista milanese di turismo, food ed eventi
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